Il Piemonte non è terra solo di campioni ma anche di carpioni. Questi brillano degnamente fra le star della cucina regionale accanto a piatti sontuosi come il fritto misto e la finanziera, o conviviali come la bagna cauda. Come altre specialità che segnano le tavole subalpine, il carpione affonda le sue radici nella cucina povera delle campagne e poi diventa, con l’affrancarsi dalla vita grama dei contadini, un piatto quasi nobile e trasversale: lo puoi trovare in carta, soprattutto d’estate, tanto nell’umile piola quanto nel ristorante stellato.
E per fortuna c’è chi ancora ha la pazienza (non è una cosa che prepari in quattro e quattr’otto) di farselo in casa. Il carpione è trasversale anche rispetto agli ingredienti: lo puoi utilizzare come “preparazione” per i pesci, le carni, le uova e le verdure. Nasce al tempo in cui i frigoriferi non si sapeva neppure cosa fossero (quelli domestici risalgono ai primi del ‘900, la grande diffusione si avrà nel Secondo dopoguerra con gli anni del boom), ma c’era l’esigenza soprattutto d’estate di conservare i cibi dopo la cottura il più a lungo possibile.
E a volte si trattava di cibi che già di loro avevano qualche difettuccio, come ad esempio le carpe o altri pesci d’acqua dolce che sapevano di fango, gusto che si cercava di coprire o mitigare con il sapore forte dell’aceto. E il carpione riesce a far fronte brillantemente a queste due esigenze. Il nome deriva da un pregiato pesce del lago di Garda e dalla tecnica di conservarlo (dopo averlo fritto) in una marinatura di aceto ed erbe aromatiche. A poco a poco questa tecnica si è diffusa nel Piemonte rurale e si è estesa a ortaggi, uova e carne. Così non c’è nella nostra regione d’estate locale che non sfoderi in menu qualche antipasto o qualche secondo in carpione.
Cibo di tradizione contadina secondo alcuni il carpione fu esportato a Torino anche grazie alle ragazze di provincia che venivano a servizio nelle case di città: nel suo racconto d’esordio nel 1929 –Vittoria –̶ Mario Soldati, scrittore, regista, nonché celebre gourmet, eleva l’odore delle zucchine in carpione che impregna certi interni torinesi quasi a simbolo della mediocrità piccolo-borghese. Ma il carpione non è un piatto mediocre, anzi. Si addice a chi ama i gusti decisi ma può essere anche molto raffinato. E in fondo oggi che le tendenze della gastronomia internazionale, tra gli influssi orientali e quello nordici, riscoprono il gusto dell’acido e delle fermentazioni, si può considerare un piatto d’avanguardia.
Le zucchine (o gli zucchini? la controversia è sempre aperta) fanno parte con l’uovo in camicia o fritto e la milanese di vitello– ma c’è chi la preferisce di pollo – della triade per eccellenza del carpione piemontese. Non bisogna dimenticare i pesci d’acqua dolce, in primis l’anguilla o il capitone (che ad onta del nome maschile è la femmina della specie), che è un evergreen anche se oggi di più difficile reperimento. Oltre a questa, altri pesci interessanti che vanno dalle trote alle tinche, dai coregoni alle carpe. Ça va sans dire che come la vendetta il carpione è un piatto che si serve freddo, e va mangiato dopo averlo fatto riposare almeno una notte.
Protagonista nella preparazione è l’aceto che può essere di vino bianco o di mele a seconda dei gusti ma che è accompagnato per la marinatura anche dal vino bianco. Fondamentali però sono gli ortaggi, cipolla, carota e sedano, e le erbe, alloro o salvia, basi del soffritto cui si aggiungeranno aceto, acqua e vino bianco, per la marinatura in cui immergere, magari cospargendole di pepe nero, le prelibatezze fritte da conservare. Il problema con il carpione diventa quale vino abbinare una volta che lo servi in tavola: nelle piole d’un tempo dove si mangiava sotto le topie (allora la parola dehors non era di moda) l’avevano risolto con certe barberacce del contadino, la cui acidità finiva per gareggiare con quella del carpione.
Oggi si possono scegliere vini più eleganti ma il consiglio è di rivolgersi a un buon sommellier, perché la presenza dell’aceto rende difficile fare un buon matrimonio. C’è ancora da dire che il carpione piemontese fa parte di una ricca famiglia di preparazioni per la conservazione dei cibi a base di aceto diffuse in tutta Italia e non solo: basti pensare all’escabeche spagnolo che avrebbe origini arabe (se ne parla anche nelle Mille e una notte) e che ritroviamo con varianti diverse in molte cucine dell’America latina.
Nel nostro Paese si va dallo scapece napoletano allo scabeccio ligure, per finire al saor veneziano, dove brillano da sempre le sarde: qui però nella marinatura troviamo anche zucchero, pinoli e uvetta, il che fa della preparazione un classico dell’agrodolce. Non si può finir di parlare del carpione senza citare Gipo Farassino, lo chansonnier torinese, che in una sua celebre pièce teatrale – La predica – ripresa dal grande Artuffo, raccontava di un prete che si era ritrovato nel tabernacolo al posto del vino dolce da messa, un vin brusc, ossia acido, e aveva finito per gustare «Nos-sgnor’n carpiun».