Il fresco piacere della carpionata multipla piemontese

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Gli storici Alberto Capatti e Massimo Montanari, nel fondamentale La cucina italiana. Storia di una cultura, ricordano come «L’importanza delle conserve nella storia della gastronomia è anche quella di essere un punto d’incontro fra cultura popolare e cultura di élite. Il cibo conservato rappresenta, infatti, la prima preoccupazione di un sistema alimentare di sopravvivenza, che non può permettersi il lusso di affidarsi al mercato quotidiano o al capriccio delle stagioni. Conservare, mettere in dispensa, è stato da sempre il primo obiettivo per combattere la fame».

Si comprese molto presto, pur senza conoscerne scientificamente la ragione, che uno dei segreti per la conservazione del cibo consisteva nell’isolare le derrate dal contatto con l’aria, la luce o l’umidità avvolgendole o rinchiudendole in sostanze impermeabili come l’argilla o il miele, in un secondo tempo l’olio, il sale, il vino o l’aceto, il grasso. Sostanze – pensiamo all’aceto – che modificavano, inoltre, l’aspetto e il gusto del cibo, rendendolo spesso più appetibile. Da qui ad arrivare a una preparazione molto diffusa in diverse regioni d’Italia, pur con denominazioni diverse, il passo non è lungo. Dalle alici marinate alle tante ricette di agrodolce (per esempio i peperoni), dalle cipolline sott’aceto alla giardiniera di verdure, dalle venete sarde in saor all’artusiano baccalà in dolceforte.

Quanto allo scapece – pesce fritto o bollito poi marinato in sale e aceto, già prefigurato in una ricetta di Apicio e diffuso nei ricettari italiani dal Trecento in poi – è ancora oggi tradizionale in Liguria, Abruzzo e Puglia, dove si caratterizza per l’aggiunta dello zafferano. Piatto popolare, da osterie e sagre paesane.
Quasi sempre pesce, dunque, e nella fattispecie d’acqua dolce, come quel pesce carpione, parente stretto della trota, che popolava i laghi lombardi e che ora è quasi scomparso, sostituito da agoni, coregoni, sarde di lago, piccole carpe, pesci gatto, alborelle.

E per tutti una marinata che ha iniziato a chiamarsi, al Nord, “carpione”, proprio per via di quel pesce. Da noi, gli spinosi barbi e cavedani del Tanaro trovavano la loro fine carpionati: annegati nella marinata aromatica, si conservavano per molti giorni al fresco della cantina, le loro lische quasi si scioglievano nell’aceto e spariva l’eventuale sapore fangoso. Anche le più nobili tinche di peschiera – gli stagni artificiali usati per l’irrigazione degli orti e per la macerazione della canapa – subivano, nelle cascine della Piana villanovese, la stessa sorte.

Del resto, ancora oggi una piccola parte del territorio astigiano (i comuni di Buttigliera, Cellarengo, Dusino San Michele, San Paolo Solbrito, Valfenera, Villanova) è interessata alla salvaguardia e alla valorizzazione della Tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino, che si fregia della Dop. Come non ricordare, poi, l’anguilla carpionata, che ha fatto per decenni la fama dei ristoranti lungo il Tanaro, dal vecchio al nuovo Gener al Moro?

Se si lavora con il pesce, può essere un’idea introdurre altri aromi e far appassire in olio una bella cipolla bianca tagliata a rondelle sottili, una costa di sedano e una carota tagliati a tocchetti, un paio di foglie di alloro (al posto della salvia) e i consueti spicchi d’aglio. Per dare un tocco di raffinatezza, volendo, si può preparare una gelatina insaporita di aceto o limone e, una volta rassodata, tagliarla a cubetti per guarnire i singoli piatti. Interessanti, sempre per il pesce d’acqua dolce, le ricette di alcuni ristoranti del territorio che hanno introdotto, al posto dell’aceto di vino rosso, un miscuglio di aceto di vino bianco e di Moscato d’Asti, correggendo da ultimo con sale e un sospetto di zucchero: si ottiene una marinata molto delicata, agrodolce, da versare fredda su filetti di trota (o anguilla o tinca) appena infarinati e dorati in padella.

Nei paesi di collina, invece, con l’orto dietro casa, le galline nel pollaio e qualche bovino nella stalla, ecco “la” carpionata: zucchine, uova fritte o in camicia, cotolettine impanate e, via via nel tempo, bocconcini di pollo, polpette di carne, bistecchine di spalla di coniglio… E quando avanza del bollito, una classica marinata lo può rivitalizzare, purché si disponga di un trancio di carne magra lessa, che si possa tagliare, ben fredda di frigo, a fettine sottili e regolari. L’importante è fare bene il carpione, con aceto di vino buono (magari con l’aggiunta di acqua e di mezzo bicchiere di vino bianco per stemperare il forte), spicchi d’aglio carnosi, abbondanti ciuffi di salvia. E un riposo di un bel paio di giorni.

L’avvocato gastronomo Giovanni Goria, che nei suoi fortunati ricettari parla di “carpionata multipla piemontese”, sposando la precisione della descrizione del piatto con il suo linguaggio evocativo, osserva: «Piatto supremamente estivo, destinato a confortare e quasi rianimare col suo fortore di aceto gli uomini che tornavano ubriachi di calore e di secchezza dai lavori dei campi in luglio».

E capitava pure che le donne portassero il carpione direttamente nei campi, se erano lontani da casa, ben sistemato nelle ceste coperte dai classici fassulèt a grup a quadrettoni rossi e blu. Si pescava dunque dalla basila di terracotta o di metallo smaltato, ci si rinfrescava il palato, si stuzzicava l’appetito – se mai ce ne fosse bisogno – e si gustava un piatto completo. Oggi “peschiamo” dai nostri contenitori ultraigienici a chiusura ermetica, ben riposti in frigorifero, ma il piacere del carpione in una calda giornata estiva è sempre grande.